- Alessandra Litrico
- Psicologia e Benessere
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Parlare di buone retribuzioni, di benefit e di scatti di carriera non sempre è sufficiente se i dipendenti non sono anche felici. Forse è questa la ragione alla base della sempre crescente richiesta del manager della felicità, in azienda. Ma procediamo con ordine.
Nel mondo del lavoro esiste il sistema di riconoscimento, una pratica che ha lo scopo di dare valore alle proprie risorse attestandone l’operato. Eppure, secondo una ricerca condotta da Workhuman e Gallup negli Stati Uniti e in Europa occidentale, soltanto il 36% dei dipendenti afferma che nel luogo di lavoro esiste una qualche forma di attenzione verso tale riconoscimento. Dipendenti gratificati stimolano maggiormente la produttività e un ambiente di lavoro sano scatena il benessere delle persone. I riconoscimenti attesi non sono solo quelli economici, ma legati più profondamente al modo in cui i dipendenti lavorano, all'impegno profuso e alla fedeltà rispetto al contesto aziendale. Circostanze che spesso vengono date per scontate, producendo atteggiamenti passivi che non contribuiscono a dare i giusti input al personale.
I dipendenti italiani sono insoddisfatti (e infelici)
«Felice colui che ha trovato il suo lavoro; non chieda altra felicità», scriveva Thomas Carlyle, ma il problema è che molti italiani non trovano facilmente un posto di lavoro in cui raggiungere lo stato di grazia, ed anzi, molto spesso si ritrovano a lasciare contesti inadeguati allo scopo.
L’ultima indagine Ipsos in occasione della Giornata internazionale della felicità 2023 rivela che l’Italia non è tra i paesi più felici: tra i 32 Paesi esaminati si posiziona soltanto al 25° posto. Il Fenomeno delle Grandi Dimissioni è sotto gli occhi di tutti e dai dati del Ministero del Lavoro emerge che, nel 2022, quasi 2 milioni di italiani hanno deciso di dimettersi. Secondo le ricerche, tra i motivi ci sono la ricerca di uno stipendio migliore, l’insoddisfazione per la mancanza di una progressione di carriera e la ricerca di un maggiore benessere personale. Non stupisce che in Italia ci siano sempre più professionisti che considerano la felicità un obiettivo raggiungibile da ogni lavoratore e che si adoperano perché ciò avvenga.
Il manager della felicità cambia il mindset del personale
Il manager della felicità o Chief Happines Officer insegna a “pensare” con il corpo per migliorare o favorire i processi di trasformazione e aumentare la felicità delle persone. La missione di chi svolge questo mestiere si distingue da quella degli imprenditori che cercano di stimolare i dipendenti e alzare il livello di benessere con iniziative e contesti di lavoro che, sebbene accrescano il pensiero positivo, non necessariamente fanno della loro mission la felicità delle persone che lavorano in altre aziende.
Il manager della felicità ricerca e predispone politiche di wellness per i dipendenti usando diverse strategie finalizzate ad aumentare l’affezione verso l’azienda e la volontà di collaborare con colleghi o superiori in un ambiente di lavoro che trasmette emozioni positive.
Claudia Campisi, Career Coach, LinkedIn Top Voice 2023 e in libreria con “Uno psicologo sul web”, spiega quanto sia importante non banalizzare il concetto di felicità e quali sono i vantaggi dell’avvalersi di questa figura: «Il primo invito è quello di non fermarsi al significato letterale del termine “felicità”, ma analizzare le possibili opportunità date dalla presenza in azienda di una simile figura professionale. Il focus principale di questa nuova professionalità, interna al team HR, è il benessere psicologico e relazionale del personale all’interno dell’organizzazione. Un risultato che è possibile ricavare a partire da un’analisi, con relativa raccolta dei bisogni della popolazione aziendale, e azioni concrete per darvi risposta».
Al di là delle etichette professionali, il CHO è un professionista sempre più richiesto e utile per le aziende: «Mi piace immaginare questo collega quale osservatore sensibile e discreto del clima aziendale. Portare in azienda strumenti di crescita personale e psico-educativa può rappresentare un valore e un’opportunità per il singolo quanto per l’organizzazione. Oggi le soft skills hanno un peso specifico notevole, su cui anche le istituzioni scolastiche e le aziende sono pronte, finalmente, ad investire».
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