Il tuo carrello
Non ci sono più articoli nel tuo carrello
- Vincenzo Nunziata
- Informazione Tecnica
- 0 commenti
Lo scopo principale di una struttura è quello di sostenere dei carichi (o pesi) in condizioni di sicurezza (senza crollare) e trasferirli a terra.
I carichi possono essere di vario tipo e fanno parte del linguaggio comune, come ad esempio: gli autoveicoli, il vento, ecc., per le strutture da ponte; il peso delle persone, mobili, vento, terremoto, ecc., per gli edifici; l’acqua per le dighe; ecc.
Capire questo semplice concetto è fondamentale per la comprensione del funzionamento delle strutture. Può sembrare strano ai non addetti (ma molte volte anche agli addetti che non hanno ben chiaro tale concetto) che alla fine tutto si regge attraverso due sole azioni (o meglio reazioni) che la struttura utilizza per poter trasferire i carichi da una parte all’altra e infine a terra.
Molto interessante dal punto di vista concettuale per capire il fenomeno fisico è immaginare la struttura, nel caso di un edificio normale composta da pilastri verticali e travi orizzontali, come se fosse una rete di tubature (i pilastri e le travi) che debbono convogliare a terra l’acqua che scorre (il flusso delle tensioni), figura 2. Tale assimilazione viene indicata in termini tecnici: “Analogia idraulica” del flusso dei carichi o delle tensioni.
Ben diversa è l’analisi del fenomeno fisico elementare, la sua rappresentazione, la verifica e la previsione degli effetti sulla struttura, dove in tali casi effettivamente occorre una conoscenza scientifico-matematica e dei mezzi di calcolo avanzati. Questa parte attiene alla fase che si indica con il termine “analisi” e che non è oggetto della presente trattazione; noi ci stiamo occupando di individuare e capire i principi fondamentali alla base del funzionamento delle strutture che non necessitano di particolari conoscenze scientifico-matematiche.
Tornando alle azioni elementari di trazione e compressione, possiamo affermare che qualunque siano i carichi applicati e la struttura esaminata, questa agisce o meglio reagisce (ricorda il 2° principio della dinamica di Newton: ad ogni azione trasmessa corrisponde una reazione uguale e contraria) attraverso due sole azioni: la trazione, che allunga alcuni elementi o parti strutturali, e la compressione, che accorcia altri elementi o parti strutturali. Nel linguaggio tecnico si dice che i carichi “sollecitano” la struttura e questa subisce una “deformazione”.
Immaginiamo di fare un esperimento: prendiamo un normale elastico e tiriamolo (carico) con due mani, figura 3.a, esso sarà soggetto solo a trazione (reazione) e si allungherà (deformazione); se invece prendiamo un pezzo di cera (un lumino, una candela, ecc.) e lo comprimiamo (carico) con una mano, figura 3.b, esso sarà soggetto solo a compressione (reazione) e si accorcerà (deformazione).
Se ripetiamo l’esperimento, figura 4, con una corda, ad esempio quella per stendere i panni, e la tiriamo, e un pezzo di sughero, ad esempio un tappo, e lo comprimiamo, verificheremo che per quanto forti siamo la corda, sebbene si allunghi leggermente, ed il sughero, sebbene si accorci leggermente, non si rompono. A maggior ragione se prendiamo un filo di ferro e un mattone e ripetiamo l’esperimento, oltre a non rompersi non riusciremmo ad apprezzare nemmeno la deformazione, sebbene sempre presente¹ in tutte le costruzioni.
¹ Se avessimo un dispositivo chiamato estensimetro elettrico o strain-gage incollato all'elemento strutturale e collegato a un dispositivo elettronico saremmo in grado di apprezzare spostamenti (allungamenti e accorciamenti) nell'ordine di 0.0001mm.
Anche se nella maggioranza dei casi materiali meno deformabili sono anche più resistenti, ciò non è sempre vero, basti pensare al vetro che si deforma pochissimo prima di rompersi (materiale fragile) nonostante sia in genere poco resistente, mentre l’acciaio si deforma molto prima di rompersi (materiale duttile) e nello stesso tempo è un materiale molto resistente.
I materiali si comportano in maniera differente nei confronti degli sforzi elementari di trazione e compressione. Vi sono materiali che resistono bene a compressione e male a trazione, come ad esempio: i mattoni, le pietre naturali, il calcestruzzo, ecc.; mentre vi sono altri materiali che resistono bene a trazione e compressione, anche se in maniera differente, come ad esempio: l’acciaio, l’alluminio, il legno, ecc.
Vi sono inoltre elementi strutturali soggetti solo allo sforzo di compressione come ad esempio: i muri in pietra, gli archi, le volte in muratura, ecc.; mentre altri elementi sono soggetti solo allo sforzo di trazione, come ad esempio: le funi, le tensostrutture, le vele, ecc.
Un concetto molto importante da comprendere è il concetto di sforzo o tensione a cui è sottoposta una struttura per effetto delle azioni elementari di trazione e compressione, in linguaggio tecnico tale azioni dette anche sollecitazioni.
La struttura, da un certo punto di vista, si comporta come un essere umano. Supponiamo di dover spostare dei sacchi pieni caricandoceli sulle spalle, figura 5, se il sacco pesa di più rispetto ad un altro dovremmo fare un sforzo maggiore per trasportarlo e se siamo al limite delle nostre forze (resistenza) rischieremmo di crollare sotto il peso del sacco.
Normalmente le strutture durante il loro uso sono nella condizione che abbiamo indicato in figura con “poco sforzo” e solo in casi eccezionali possono essere soggette a carichi più gravosi che comunque non devono provocare il crollo con un adeguato margine di sicurezza, in termini tecnici tale margine indicato come coefficiente di sicurezza.
L’introduzione nel pensiero scientifico della rappresentazione grafica delle forze con delle frecce o vettori, anche se può sembrare banale, rappresentò un enorme passo in avanti per lo studio e soprattutto per l’analisi e verifica (attraverso la statica grafica) dei sistemi strutturali.
La rappresentazione delle forze attraverso l’uso di vettori e il loro utilizzo per risolvere problemi di calcolo avvenne molto tardi dal punto di vista storico. Galileo Galilei (1564-1642) che tutti conoscono per essere stato un famoso e importante matematico, fisico e astronomo, ma pochi sanno che si è occupato anche dello studio di problemi strutturali dal punto di vista analitico e per questo ritenuto il primo “ingegnere” della storia, nella sua opera Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze pubblicata a Leida in Germania nel 1638 (essendovi il divieto di pubblicazione di opere di Galileo in un paese cattolico per effetto della famosa condanna ed abiura del sistema Copernicano: Terra che gira intorno al sole e non l’inverso come previsto dal sistema Tolemaico accettato dalla Chiesa, che lo scienziato fu costretto a fare davanti al tribunale dell’inquisizione) riporta un curioso disegno, figura 7a, per rappresentare e studiare dal punto di vista analitico³ il problema della trave a mensola.
(³ Si vuole precisare che fino al 1600-1700 per discutere di problemi scientifici, teoremi, ecc., non venivano utilizzate formule matematiche tipo equazioni, proporzioni, sistemi, ecc., ma il fenomeno fisico veniva descritto con un determinato linguaggio per così dire scientifico, ad esempio: tanto maggiore sarà la sezione della colonna tanto maggiore la sua resistenza; oppure: il rapporto tra i bracci di leva è uguale all’inverso del rapporto dei pesi relativi in equilibrio; ecc.)
Su tale problema, che per i moderni ingegneri rappresenta un banale problema di scienza delle costruzioni, si cimentarono famosi studiosi per circa due secoli fino alla sua definitiva soluzione ad opera di Coulomb e Navier, esso fu chiamato il problema di Galileo o la mensola di Galileo. Lo stesso disegno o “modello di calcolo” viene oggi rappresentato in maniera molto più semplice e diretta, figura 7b.
In definitiva una trave soggetta ad una forza all’estremità di intensità 300 kg ed inclinata di 30° può essere studiata o analizzata considerando la stessa trave con due forze all’estremità: orizzontale e verticale, di intensità rispettivamente 150 kg e 260 kg che producono gli stessi effetti della loro risultante, figura 9.
Da questo principio si evince che la struttura si comporta al riguardo come un essere umano che per eseguire un lavoro cerca sempre di fare il minimo sforzo.
In generale bisogna essere diffidenti della loro efficienza strutturale di tutte quelle strutture complesse, “strane”, “aggrovigliate”, di cui non si riesce a capire il principio di funzionamento, figura 10b, esse saranno le prime a subire danni o crollare in caso di eventi eccezionali o semplicemente più gravosi.
Nervi ci ha lasciato delle opere d’arte strutturali immortali basate su sani principi statici ed estetici, sebbene si possa affermare che una struttura ben progettata è anche una bella struttura, una su tutte il Palazzetto dello sport realizzato a Roma nel 1960 che non ha bisogno di spiegazioni per capirne il funzionamento statico, figura 12: in particolare possiamo immaginare il flusso delle forze principalmente di compressione che scorrono e portano a terra i carichi attraverso una fitta rete di “canali” e alla fine attraverso le “braccia” di pilastri inclinati che sostengono la grande cupola; questi pilastri sembrano quasi dei giganti nell’atto di sostenere con le mani un coperchio per un grande contenitore.
Abbiamo parlato in precedenza degli unici due sforzi a cui tutte le strutture sono assoggettate nel momento in cui devono trasferire dei carichi o in generale delle forze, ovvero gli sforzi di Trazione e Compressione. Vedremo ora come tali sforzi si distribuiscono in funzione della specifica tipologia strutturale o elemento strutturale considerato.
Archi volte e cupole, figura 13, furono le prime forme strutturali stabili, insieme alla trave, che l’Umanità seppe dotarsi per coprire gli spazi pubblici (templi, basiliche, ecc.) e privati; essi furono utilizzati anche per la realizzazione di opere infrastrutturali (acquedotti, ponti, ecc.), in particolare l’arco e la volta.
Si vuole sottolineare che nella trattazione che segue si farà riferimento agli archi, volte e cupole in muratura, ovvero costruite con conci singoli, squadrati ed assemblati, a secco o con malta, figura 15; gli archi in acciaio o cemento armato che a differenza dei primi sono di tipo continuo presentano un comportamento strutturale leggermente diverso che si basa su principi che richiedono la conoscenza anche del comportamento della trave (funzionamento arco-trave).
Se immaginiamo l’arco costituito da due mezzi archi che si collegano in sommità (concio di chiave), figura 16, si capisce bene che i due mezzi archi da soli crollerebbero miseramente (non se fossero di cemento armato o acciaio) in quanto i singoli conci tenderebbero a ruotare e cadere all’interno per effetto del solo peso proprio. Il collegare in sommità i due mezzi archi tramite il concio di chiave, che non è altro che un cuneo, significa contrastare la tendenza a ruotare in senso orario del mezzo arco di sinistra con analoga tendenza a ruotare in senso antiorario (opposta) del mezzo arco di destra, le due debolezze si contrastano a vicenda e si annullano rendendo la struttura dell’arco stabile e resistente in grado di portare non solo il peso proprio ma anche i carichi applicati in copertura.
I due concetti sopra esposti: il contrasto reciproco e stabilizzante dei due mezzi archi e la conseguente spinta alla base, sono stati dibattuti per secoli dal punto di vista teorico, ed in molti casi hanno condotto ad opinioni contrastanti che hanno dato luogo a delle forme di arco palesemente errate.
A questo punto siamo in grado di capire come funziona un arco in muratura; supponiamo di dover trasferire a terra il peso dei materiali di copertura di un arco, figura 17, facendo ricorso alla solita analogia idraulica possiamo dire che queste forze-peso (o carichi) si scaricheranno a terra attraverso i due semiarchi mediante un flusso di tensioni di sola compressione.
RΑ+RB = somma carichi applicati (nota bene: A e B sono pedici)
Oltre alle reazioni verticali nascono anche due forze orizzontali: SA e SB, dette spinte di uguale valore e di verso opposto (SA = -SB), per i motivi che abbiamo visto in precedenza.
Il problema della spinta dell’arco ha rappresentato la preoccupazione più sentita dai costruttori e dagli studiosi fino a circa la metà del XIX secolo, questo perché l’esperienza esecutiva mostrava che la principale causa di collasso degli archi era proprio la non idoneità della struttura di appoggio a sopportare tali spinte, le quali per archi di una certa importanza assumono valori considerevoli. In generale invece i materiali utilizzati per la realizzazione degli archi (mattoni e pietre) erano sufficientemente resistenti, atti ad assorbire le tensioni di compressione trasmesse dai carichi.
La convinzione errata dei capomastri e degli studiosi (più degli studiosi che dei capomastri) che l’imposta orizzontale (appoggio orizzontale dei conci di estremità) significasse spinta orizzontale nulla, condusse in taluni casi a scelte geometriche per la forma dell’arco “strane” e non perfettamente idonee nei confronti della reale statica dell’arco, come ad esempio: archi ad ansa di paniere o semiellittici, a cuspide, ecc., cercando in tutti i modi di avere la parte di estremità dell’arco quando più vicina alla verticale e con gli appoggi orizzontali.
Le tipologie di arco più diffuse sono tre, figura 18, a cui corrispondono un diverso comportamento strutturale in special modo per la spinta, esse sono:
1) arco a “sesto ribassato”
2) arco a “tutto sesto”
3) arco a “sesto acuto”.
Tutte le tre tipologie di arco più diffuse presentano pregi e difetti e il loro uso è condizionato oltre che da motivi statici anche da motivi estetici ed architettonici.
Gli stili architettonici che mio parere hanno rappresentato la massima espressione e sintesi insieme di arte, architettura e struttura sono stati il Romanico e il Gotico (gli stili precedenti: Greco, Romano, Paleocristiano; e successivi: Rinascimento, Barocco, Rococò, Neoclassico, ecc., hanno offerto delle eccellenze che riguardavano singoli campi come la pittura, la scultura, l’architettura, la struttura, ecc., ovviamente senza voler generalizzare in quanto sicuramente esistono delle opere appartenenti a tali stili che abbracciano più campi). Essi caratterizzarono un periodo storico-culturale particolarmente fecondo che va dall’anno 1000 fino al XII secolo per l’architettura Romanica e dal XII fino al XIV secolo per l’architettura Gotica, anche se tali stili originari sono stati ripresi più volte in età successive fino ai tempi moderni con il neo-Romanico ed il neo-Gotico.
Mi ricordo ancora quando da giovane ingegnere strutturista appena laureato ero convinto che attraverso gli studi e concetti teorici acquisiti nei vari corsi frequentati e con i potenti mezzi informatici e software a disposizione sarei stato in grado di progettare, calcolare e verificare qualsiasi tipo di struttura. Grande fu la delusione quando, prima per semplice curiosità e poi per passione, incominciai a leggere qualche libro di storia dell’architettura, io ingegnere completamente ignorante di architettura in quanto non mi era stata insegnata quasi fosse una disciplina per la quale gli ingegneri oltre a non averne titolo non ne avevano nemmeno la necessità, quasi fosse una materia destinata ad una ristretta cerchia di “specialisti”. Mi ricordo ancora come mi sentii piccolo (nonostante la mole) nel pensare all’ardire avuto dal progettista sconosciuto del Pantheon (120 d.C.), che forse sarebbe meglio chiamare capomastro: un enorme cupola in calcestruzzo di circa 43 m di diametro che ancora oggi con le conoscenze scientifiche ed i mezzi a disposizione sarebbe arduo progettare. E che dire dei capomastri del Romanico e Gotico, alle loro grandi invenzioni strutturali: l’arco a sesto acuto, la volta a crociera, l’arco rampante, i pilastri a fascio, ecc., che gli permisero di costruire in particolare chiese e basiliche che si diffusero in tutta Europa. Esse rappresentano delle autentiche opere d’arte, che ancora oggi dopo più di 1000 anni risultano perfettamente idonee e funzionanti e che noi moderni ingegneri o architetti oltre a non essere in grado di calcolare, anzi secondo le attuali normative tali opere sarebbero dovute già crollare da un pezzo, non saremmo neanche in grado di progettare e costruire; anche se molti cosiddetti “esperti” o “specialisti” non ammetterebbero mai tale dura constatazione, essa è la pura realtà.
La volta a crociera introdotta come elemento idoneo a coprire le navate delle grandi cattedrali a partire dall’architettura Romanica (circa X secolo) fino a raggiungere la sua massima espressione stilistica nell’architettura Gotica (XII – XIV secolo) rappresenta una sintesi di arte, nella sua concezione strutturale; architettura, nella funzione e rapporto dei volumi che delimita; tecnologia, nella applicazione di tecniche e tecnologie costruttive con mattoni o materiali lapidei (tali tecniche e tecnologie ormai perse nella memoria e nell’insegnamento).
La volta a crociera risolve brillantemente un problema funzionale (è solo questo lo scopo dell’architettura e dell’ingegneria strutturale; o dovrebbe esserlo!) che è quello di coprire grossi spazi scaricando i pesi in punti singolari (pilastri) senza impedire il libero movimento delle persone che potrebbe essere causato ad esempio dall’uso di setti o pareti in muratura, figura 20.
Il problema della spinta è stato già ampiamente trattato insieme a tutti gli elementi strutturali inventati per il suo assorbimento: contrafforti, arco rampante, catena, ecc., e nulla è da aggiungere in merito.
Le volte a crociera sono autoportanti una volta risolto il problema della spinta, ma i capomastri romanici e gotici vollero enfatizzare il ruolo statico ed estetico degli archi diagonali e dei timpani mediante la realizzazione di nervature sottosporgenti (o costoloni) in genere realizzate con materiale diverso rispetto a quello della volta e di diverso colore, figura 21.
I capomastri delle cattedrali gotiche erano innanzitutto degli artisti e poi dei capaci “ingegneri”, nel senso moderno del termine. Nulla ci è pervenuto sui principi e regole utilizzate per progettare e per dimensionare le strutture, quello che si conosce è che i capomastri appartenevano ad un “gilda” (corporazione di artigiani medioevale) molto potente ed estremamente chiusa, gelosa dei segreti acquisiti nella progettazione e realizzazione delle cattedrali al punto che uno di loro uccise il proprio figlio quando seppe che questi aveva riferito i segreti del mestiere al vescovo della cattedrale che stava costruendo.
Dal punto di vista storico, essendo le capriate inizialmente costruite in legno, un materiale come è noto che con il passar del tempo marcisce in special modo in ambienti umidi, non è noto quando siano state introdotte come elemento strutturale. È verosimile che i Romani, grandi costruttori e maestri della tecnica di lavorazione del legno (centine, navi, ecc.) utilizzassero le capriate in alternativa alle volte a botte, per coprire i grandi spazi degli edifici con destinazione pubblica o privata: basiliche, palestre, ecc. Purtroppo di tali elementi strutturali non è rimasta traccia né scritta (Marco Vitruvio Pollione, 80 a.C. – 15 a.C., nel suo famoso trattato sull’architettura “De architectura” non ne tratta) né reale. Quello che si sa è che le capriate vennero sicuramente utilizzate in epoca Paleocristiana per la copertura delle prime basiliche cristiane, anche se non se ne conosce la geometria per mancanza di testimonianze o reperti. In effetti quasi tutte le strutture in legno che sono giunte sino a noi dall’antichità non sono le originali, ma copie ottenute sostituendo di volta in volta i vari elementi deteriorati durante i lavori di manutenzione e restauro avvenuti nel corso dei secoli.
La capriata risulta dal punto di vista strutturale una delle strutture più efficienti in quanto le aste da cui è composta risultano o tese o compresse, questo avviene a rigore solo se i carichi sono concentrati nei nodi, come da prassi.
È stato osservato che le aste compresse sono soggette al fenomeno dell’instabilità che ne riduce la resistenza ed è funzione sia della sezione che della lunghezza dell’asta: un’asta più “corta” e più “grossa” è meno instabile. Per questo motivo si può notare in alcune travature reticolari che le aste compresse o puntoni sono corte e spesse, mentre le aste tese o tiranti sono lunghe e sottili (come ad esempio le catene).
Ma come si fa a capire quali sono le aste compresse e tese in una capriata soggetta a carichi? A questa domanda molti giovani ingegneri risponderebbero di attendere di poter inserire i dati (input) in un software di calcolo strutturale e ottenere la risposta dalla macchina. La strada invece da seguire in primis solo a livello qualitativo, ovvero per capire se un asta è tesa o compressa ma senza determinare il valore dello sforzo, potrebbe essere molto semplice ed evitare di non riconoscere imbarazzanti errori che a volte si verificano nell’analisi strutturale al computer che sono accettati supinamente come verità assoluta.
La semplice soluzione è quella di immaginare (esperimento mentale o Gendankenexperiment secondo Einstein) di rimuovere a turno ciascuna asta dalla capriata sotto carico, che così diventa instabile o un meccanismo (solo nel caso di aste strettamente necessarie e non sovrabbondanti), e verificare, sempre a livello di immaginazione, se i nodi di estremità dell’asta rimossa tendono ad avvicinarsi o ad allontanarsi. Nel caso in cui i nodi tendano ad avvicinarsi l’asta rimossa è sicuramente compressa, mentre se i nodi tendono ad allontanarsi l’asta è tesa.
Dal punto di vista grafico per indicare che l’asta è tesa si disegnano su di essa due frecce divergenti, mentre se l’asta è compressa due frecce convergenti.
Il primo passo è quello di trasformare la struttura reale in un modello semplificato che la rappresenta, figura 23b.
Si procede immaginando di rimuovere mentalmente a rotazione ciascun elemento della capriata, senza ripetere il ragionamento per elementi simmetrici o in continuità che presentano analogo comportamento, e disegnare o pensare come la struttura si deformerebbe.
In figura 23g sono rappresentate le aste tese e compresse così individuate.
Trazione e compressione
Tutte le strutture: dagli edifici ai grattacieli, dai ponti alle grandi coperture, dagli aerei alle navi, dalle auto ai treni, ecc., sono sempre o tese (soggette a trazione) o compresse (soggette a compressione) oppure sottoposte ad una combinazione delle due: in parte tese e in parte compresse, figura 1.Capire questo semplice concetto è fondamentale per la comprensione del funzionamento delle strutture. Può sembrare strano ai non addetti (ma molte volte anche agli addetti che non hanno ben chiaro tale concetto) che alla fine tutto si regge attraverso due sole azioni (o meglio reazioni) che la struttura utilizza per poter trasferire i carichi da una parte all’altra e infine a terra.
Molto interessante dal punto di vista concettuale per capire il fenomeno fisico è immaginare la struttura, nel caso di un edificio normale composta da pilastri verticali e travi orizzontali, come se fosse una rete di tubature (i pilastri e le travi) che debbono convogliare a terra l’acqua che scorre (il flusso delle tensioni), figura 2. Tale assimilazione viene indicata in termini tecnici: “Analogia idraulica” del flusso dei carichi o delle tensioni.
La natura è semplice (Einstein diceva “elegante”) e funziona attraverso dei principi semplici ed elementari, sono gli uomini che rendono complicate le cose che magari per spiegare tali principi tirano in ballo integrali, equazioni differenziali, sistemi di equazioni, ecc.
Ben diversa è l’analisi del fenomeno fisico elementare, la sua rappresentazione, la verifica e la previsione degli effetti sulla struttura, dove in tali casi effettivamente occorre una conoscenza scientifico-matematica e dei mezzi di calcolo avanzati. Questa parte attiene alla fase che si indica con il termine “analisi” e che non è oggetto della presente trattazione; noi ci stiamo occupando di individuare e capire i principi fondamentali alla base del funzionamento delle strutture che non necessitano di particolari conoscenze scientifico-matematiche.
Tornando alle azioni elementari di trazione e compressione, possiamo affermare che qualunque siano i carichi applicati e la struttura esaminata, questa agisce o meglio reagisce (ricorda il 2° principio della dinamica di Newton: ad ogni azione trasmessa corrisponde una reazione uguale e contraria) attraverso due sole azioni: la trazione, che allunga alcuni elementi o parti strutturali, e la compressione, che accorcia altri elementi o parti strutturali. Nel linguaggio tecnico si dice che i carichi “sollecitano” la struttura e questa subisce una “deformazione”.
Immaginiamo di fare un esperimento: prendiamo un normale elastico e tiriamolo (carico) con due mani, figura 3.a, esso sarà soggetto solo a trazione (reazione) e si allungherà (deformazione); se invece prendiamo un pezzo di cera (un lumino, una candela, ecc.) e lo comprimiamo (carico) con una mano, figura 3.b, esso sarà soggetto solo a compressione (reazione) e si accorcerà (deformazione).
Ad un certo punto se tiriamo troppo l’elastico, questo si spezza, e se comprimiamo troppo il pezzo di cera questo si rompe e va in frantumi.
Se ripetiamo l’esperimento, figura 4, con una corda, ad esempio quella per stendere i panni, e la tiriamo, e un pezzo di sughero, ad esempio un tappo, e lo comprimiamo, verificheremo che per quanto forti siamo la corda, sebbene si allunghi leggermente, ed il sughero, sebbene si accorci leggermente, non si rompono. A maggior ragione se prendiamo un filo di ferro e un mattone e ripetiamo l’esperimento, oltre a non rompersi non riusciremmo ad apprezzare nemmeno la deformazione, sebbene sempre presente¹ in tutte le costruzioni.
¹ Se avessimo un dispositivo chiamato estensimetro elettrico o strain-gage incollato all'elemento strutturale e collegato a un dispositivo elettronico saremmo in grado di apprezzare spostamenti (allungamenti e accorciamenti) nell'ordine di 0.0001mm.
Il motivo per il quale materiali sottoposti allo stesso carico alcuni si rompono ed altri no lo conosciamo bene ed è che vi sono materiali in natura ed anche creati dall’uomo più resistenti di altri: ad esempio il mattone è più resistente (più forte) del sughero che a sua volta è più resistente della cera. Anche il motivo per il quale materiali sottoposti allo stesso carico si allungano o si accorciano in maniera differente lo conosciamo bene ed è quello che vi sono materiali naturali o fatti dall’uomo più o meno deformabili: la gomma è più deformabile della plastica, che a sua volta è più deformabile dell’acciaio.
Anche se nella maggioranza dei casi materiali meno deformabili sono anche più resistenti, ciò non è sempre vero, basti pensare al vetro che si deforma pochissimo prima di rompersi (materiale fragile) nonostante sia in genere poco resistente, mentre l’acciaio si deforma molto prima di rompersi (materiale duttile) e nello stesso tempo è un materiale molto resistente.
I materiali si comportano in maniera differente nei confronti degli sforzi elementari di trazione e compressione. Vi sono materiali che resistono bene a compressione e male a trazione, come ad esempio: i mattoni, le pietre naturali, il calcestruzzo, ecc.; mentre vi sono altri materiali che resistono bene a trazione e compressione, anche se in maniera differente, come ad esempio: l’acciaio, l’alluminio, il legno, ecc.
Vi sono inoltre elementi strutturali soggetti solo allo sforzo di compressione come ad esempio: i muri in pietra, gli archi, le volte in muratura, ecc.; mentre altri elementi sono soggetti solo allo sforzo di trazione, come ad esempio: le funi, le tensostrutture, le vele, ecc.
Un concetto molto importante da comprendere è il concetto di sforzo o tensione a cui è sottoposta una struttura per effetto delle azioni elementari di trazione e compressione, in linguaggio tecnico tale azioni dette anche sollecitazioni.
La struttura, da un certo punto di vista, si comporta come un essere umano. Supponiamo di dover spostare dei sacchi pieni caricandoceli sulle spalle, figura 5, se il sacco pesa di più rispetto ad un altro dovremmo fare un sforzo maggiore per trasportarlo e se siamo al limite delle nostre forze (resistenza) rischieremmo di crollare sotto il peso del sacco.
Lo stesso discorso vale per qualsiasi tipo di struttura che debba sostenere dei carichi, figura 6.
Normalmente le strutture durante il loro uso sono nella condizione che abbiamo indicato in figura con “poco sforzo” e solo in casi eccezionali possono essere soggette a carichi più gravosi che comunque non devono provocare il crollo con un adeguato margine di sicurezza, in termini tecnici tale margine indicato come coefficiente di sicurezza.
Abbiamo quasi detto tutto sulle azioni di trazione e compressione, e fra poco saremo in grado di capire il funzionamento strutturale di molte tipologie di strutture, ma prima di fare ciò dobbiamo ampliare il concetto di forza, della sua rappresentazione grafica e composizione. Volendo fare una sintesi dei concetti esposti sino ad ora, possiamo dire:
- Il compito di ogni struttura è quello di trasferire dei carichi da una parte all’altra della struttura stessa ad alla fine a terra
- I carichi agenti sulla struttura provocano la deformazione degli elementi che compongono la struttura che si allungano o si accorciano
- Gli elementi o parti di elementi che si allungano saranno soggetti all’azione o sollecitazione di trazione; gli elementi o parti di elementi che si accorciano saranno soggetti all’azione o sollecitazione di compressione
- Gli elementi strutturali soggetti a trazione e/o compressione reagiscono agli sforzi trasmessi con la loro resistenza attraverso delle tensioni anch’esse di trazione o compressione che equilibrano gli sforzi (per il 2° principio della dinamica) affinché la struttura non si lesioni o crolli.
L’introduzione nel pensiero scientifico della rappresentazione grafica delle forze con delle frecce o vettori, anche se può sembrare banale, rappresentò un enorme passo in avanti per lo studio e soprattutto per l’analisi e verifica (attraverso la statica grafica) dei sistemi strutturali.
La rappresentazione delle forze attraverso l’uso di vettori e il loro utilizzo per risolvere problemi di calcolo avvenne molto tardi dal punto di vista storico. Galileo Galilei (1564-1642) che tutti conoscono per essere stato un famoso e importante matematico, fisico e astronomo, ma pochi sanno che si è occupato anche dello studio di problemi strutturali dal punto di vista analitico e per questo ritenuto il primo “ingegnere” della storia, nella sua opera Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze pubblicata a Leida in Germania nel 1638 (essendovi il divieto di pubblicazione di opere di Galileo in un paese cattolico per effetto della famosa condanna ed abiura del sistema Copernicano: Terra che gira intorno al sole e non l’inverso come previsto dal sistema Tolemaico accettato dalla Chiesa, che lo scienziato fu costretto a fare davanti al tribunale dell’inquisizione) riporta un curioso disegno, figura 7a, per rappresentare e studiare dal punto di vista analitico³ il problema della trave a mensola.
(³ Si vuole precisare che fino al 1600-1700 per discutere di problemi scientifici, teoremi, ecc., non venivano utilizzate formule matematiche tipo equazioni, proporzioni, sistemi, ecc., ma il fenomeno fisico veniva descritto con un determinato linguaggio per così dire scientifico, ad esempio: tanto maggiore sarà la sezione della colonna tanto maggiore la sua resistenza; oppure: il rapporto tra i bracci di leva è uguale all’inverso del rapporto dei pesi relativi in equilibrio; ecc.)
Su tale problema, che per i moderni ingegneri rappresenta un banale problema di scienza delle costruzioni, si cimentarono famosi studiosi per circa due secoli fino alla sua definitiva soluzione ad opera di Coulomb e Navier, esso fu chiamato il problema di Galileo o la mensola di Galileo. Lo stesso disegno o “modello di calcolo” viene oggi rappresentato in maniera molto più semplice e diretta, figura 7b.
Un’ultima cosa, che ci tornerà utile per capire il funzionamento di alcune strutture, va detta sulle forze ed è: qualunque forza inclinata nel piano, qualunque sia la direzione, può essere decomposta in due altre forze dette componenti, orizzontale e verticale, equivalenti alla prima. La decomposizione della forza, detta anche risultante, nelle due componenti orizzontale e verticale può essere eseguita sia graficamente che analiticamente attraverso ad esempio l’uso della trigonometria. Graficamente ad esempio, figura 8, se consideriamo una forza di 300 kg inclinata di 30°, disegnando la forza in una scala qualsiasi dove ad esempio ad ogni kg corrisponde 1 mm (300 kg 30 cm), costruendo un triangolo rettangolo dove la risultante corrisponda all’ipotenusa, si vanno a leggere sulle stesso grafico i millimetri corrispondenti ai cateti per la componenti orizzontale e verticale e si trasformano in forze, si avrà: V = 26 cm 260kg; O = 15 cm 150 kg.
Il verso delle forze componenti, nel caso in esame, è intuitivo. In generale la forza risultante produce una rotazione che si oppone alle forze componenti per l’equilibrio.
In definitiva una trave soggetta ad una forza all’estremità di intensità 300 kg ed inclinata di 30° può essere studiata o analizzata considerando la stessa trave con due forze all’estremità: orizzontale e verticale, di intensità rispettivamente 150 kg e 260 kg che producono gli stessi effetti della loro risultante, figura 9.
Abbiamo analizzato sino ad ora un caso molto semplice: una struttura composta da un solo elemento e sollecitata da un solo carico o forza, nella realtà le strutture sono formate da molti elementi, anche centinaia di elementi, e sollecitate da molte forze, un principio che ci può essere utile per capire a livello qualitativo come tutte queste forze si incanalano attraverso gli elementi strutturali per essere trasferite a terra è il “principio del minimo sforzo”, ovvero: la struttura “sceglierà” sempre di convogliare i carichi al suolo lungo il più facile dei percorsi disponibili, cioè quello che richiede il minimo sforzo totale.
Da questo principio si evince che la struttura si comporta al riguardo come un essere umano che per eseguire un lavoro cerca sempre di fare il minimo sforzo.
In generale bisogna essere diffidenti della loro efficienza strutturale di tutte quelle strutture complesse, “strane”, “aggrovigliate”, di cui non si riesce a capire il principio di funzionamento, figura 10b, esse saranno le prime a subire danni o crollare in caso di eventi eccezionali o semplicemente più gravosi.
Purtroppo oggigiorno si assiste impotenti ad una architettura moderna che piuttosto che costruire vuole stupire, con forme strane e complesse, figura 11, che sembrano venir fuori dalla matita di un pittore impressionista più che da quella di un architetto.
L’esponente più alto, a mio parere e di altri, di progettista strutturale del XX secolo: ing. Pier Luigi Nervi (Sondrio, 21 giugno 1891 – Roma, 9 gennaio 1979), affermava: “Il costruire è arte anche in quei suoi aspetti più tecnici che si riferiscono alla stabilità strutturale…”, e inoltre: “...per molti e molti secoli l’empirismo intuitivo è stato l’unica guida di progettisti e costruttori, la grandiosità e perfezione tecnica di molte realizzazioni del passato dimostrano che, partendo dalla sola intuizione e dalla interpretazione di esperienze statiche offerte dalla quotidiana realtà costruttiva, questi nostri predecessori avevano potuto formarsi una sensibilità statica, la cui efficacia ed acutezza sono misurate dalla eccellenza delle opere costruite”.
Nervi ci ha lasciato delle opere d’arte strutturali immortali basate su sani principi statici ed estetici, sebbene si possa affermare che una struttura ben progettata è anche una bella struttura, una su tutte il Palazzetto dello sport realizzato a Roma nel 1960 che non ha bisogno di spiegazioni per capirne il funzionamento statico, figura 12: in particolare possiamo immaginare il flusso delle forze principalmente di compressione che scorrono e portano a terra i carichi attraverso una fitta rete di “canali” e alla fine attraverso le “braccia” di pilastri inclinati che sostengono la grande cupola; questi pilastri sembrano quasi dei giganti nell’atto di sostenere con le mani un coperchio per un grande contenitore.
Alcuni elementi strutturali
Abbiamo parlato in precedenza degli unici due sforzi a cui tutte le strutture sono assoggettate nel momento in cui devono trasferire dei carichi o in generale delle forze, ovvero gli sforzi di Trazione e Compressione. Vedremo ora come tali sforzi si distribuiscono in funzione della specifica tipologia strutturale o elemento strutturale considerato.Archi volte e cupole, figura 13, furono le prime forme strutturali stabili, insieme alla trave, che l’Umanità seppe dotarsi per coprire gli spazi pubblici (templi, basiliche, ecc.) e privati; essi furono utilizzati anche per la realizzazione di opere infrastrutturali (acquedotti, ponti, ecc.), in particolare l’arco e la volta.
Il motivo per il quale furono le prime strutture ad essere inventate è anch’esso chiaro, esse infatti sono delle forme geometriche che trasferiscono il carico a terra attraverso la sola resistenza a compressione del materiale di cui sono composte; la sollecitazione di compressione peraltro è quella più facilmente comprensibile a livello intuitivo ed i materiali resistenti bene a compressione (in genere male a trazione) sono quelli più facilmente reperibili in natura, adesso come in passato, e più diffusi come ad esempio la pietra ed il mattone.
L’Arco
L’arco lo ritroviamo come forma strutturale presso molti popoli antichi come gli Egiziani, gli Etruschi, ecc., ma i primi maestri e coloro che diffusero l’arco in tutto il mondo civile allora conosciuto furono gli antichi Romani. Ponti ad arco in muratura e in mattoni si trovano lungo tutta la loro rete viaria e alcuni sono ancora oggi funzionanti. I muri esterni del Colosseo (80 d.C.) sono traforati da archi, le terme romane coperte da volte e archi e il Pantheon (120 d.C.) ha una cupola semisferica di circa 43 m fra le più grandi al mondo ed ancora oggi funzionante e perfettamente idonea, figura 14a. I loro acquedotti trasportavano l’acqua sulla sommità di una serie di archi alti fino a tre ordini sovrapposti, figura 14b.La luce massima (distanza tra un appoggio e l’altro) di un arco romano era di circa 30 m, e la sua forma era sempre a semicerchio a causa della facilità nell’erigere le impalcature circolari in legno o centine necessarie per la costruzione, figura 15.
Il funzionamento statico dell’arco dal punto di vista intuitivo è abbastanza semplice, dal punto di vista di calcolo invece si può dire che si sono cimentati per secoli i migliori studiosi fino alla soluzione per così dire meno approssimata di tutte e maggiormente rispettosa della realtà sperimentale che fu quella proposta da Navier nel 1807 e ripresa da Mèry nel 1840 (soluzione “Navier-Mèry”) accettata da tutta la comunità scientifica e con la quale si sono calcolati tutti gli archi in muratura da allora fino ai giorni nostri.
Si vuole sottolineare che nella trattazione che segue si farà riferimento agli archi, volte e cupole in muratura, ovvero costruite con conci singoli, squadrati ed assemblati, a secco o con malta, figura 15; gli archi in acciaio o cemento armato che a differenza dei primi sono di tipo continuo presentano un comportamento strutturale leggermente diverso che si basa su principi che richiedono la conoscenza anche del comportamento della trave (funzionamento arco-trave).
Se immaginiamo l’arco costituito da due mezzi archi che si collegano in sommità (concio di chiave), figura 16, si capisce bene che i due mezzi archi da soli crollerebbero miseramente (non se fossero di cemento armato o acciaio) in quanto i singoli conci tenderebbero a ruotare e cadere all’interno per effetto del solo peso proprio. Il collegare in sommità i due mezzi archi tramite il concio di chiave, che non è altro che un cuneo, significa contrastare la tendenza a ruotare in senso orario del mezzo arco di sinistra con analoga tendenza a ruotare in senso antiorario (opposta) del mezzo arco di destra, le due debolezze si contrastano a vicenda e si annullano rendendo la struttura dell’arco stabile e resistente in grado di portare non solo il peso proprio ma anche i carichi applicati in copertura.
Affinché l’arco sia effettivamente stabile occorre contrastare alla base, figura 16.a, la spinta che i due mezzi archi si trasmettono, se ciò non fosse l’arco invece di crollare da sopra crollerebbe da sotto.
I due concetti sopra esposti: il contrasto reciproco e stabilizzante dei due mezzi archi e la conseguente spinta alla base, sono stati dibattuti per secoli dal punto di vista teorico, ed in molti casi hanno condotto ad opinioni contrastanti che hanno dato luogo a delle forme di arco palesemente errate.
A questo punto siamo in grado di capire come funziona un arco in muratura; supponiamo di dover trasferire a terra il peso dei materiali di copertura di un arco, figura 17, facendo ricorso alla solita analogia idraulica possiamo dire che queste forze-peso (o carichi) si scaricheranno a terra attraverso i due semiarchi mediante un flusso di tensioni di sola compressione.
In corrispondenza degli appoggi dell’arco nasceranno quattro forze, le prime due verticali: RA e RB, che rappresentano le reazioni degli appoggi e presentano uguale valore o intensità (RA=RB), esse per il 2° principio della dinamica, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, devono equilibrare la somma dei carichi applicati all’intero arco, ovvero:
RΑ+RB = somma carichi applicati (nota bene: A e B sono pedici)
Oltre alle reazioni verticali nascono anche due forze orizzontali: SA e SB, dette spinte di uguale valore e di verso opposto (SA = -SB), per i motivi che abbiamo visto in precedenza.
Il problema della spinta dell’arco ha rappresentato la preoccupazione più sentita dai costruttori e dagli studiosi fino a circa la metà del XIX secolo, questo perché l’esperienza esecutiva mostrava che la principale causa di collasso degli archi era proprio la non idoneità della struttura di appoggio a sopportare tali spinte, le quali per archi di una certa importanza assumono valori considerevoli. In generale invece i materiali utilizzati per la realizzazione degli archi (mattoni e pietre) erano sufficientemente resistenti, atti ad assorbire le tensioni di compressione trasmesse dai carichi.
La convinzione errata dei capomastri e degli studiosi (più degli studiosi che dei capomastri) che l’imposta orizzontale (appoggio orizzontale dei conci di estremità) significasse spinta orizzontale nulla, condusse in taluni casi a scelte geometriche per la forma dell’arco “strane” e non perfettamente idonee nei confronti della reale statica dell’arco, come ad esempio: archi ad ansa di paniere o semiellittici, a cuspide, ecc., cercando in tutti i modi di avere la parte di estremità dell’arco quando più vicina alla verticale e con gli appoggi orizzontali.
Le tipologie di arco più diffuse sono tre, figura 18, a cui corrispondono un diverso comportamento strutturale in special modo per la spinta, esse sono:
1) arco a “sesto ribassato”
2) arco a “tutto sesto”
3) arco a “sesto acuto”.
Come si può notare dalla figura, la spinta a parità di luce L e carichi portati diminuisce man mano che aumenta l’altezza dell’arco o freccia f.
Tutte le tre tipologie di arco più diffuse presentano pregi e difetti e il loro uso è condizionato oltre che da motivi statici anche da motivi estetici ed architettonici.
Gli stili architettonici che mio parere hanno rappresentato la massima espressione e sintesi insieme di arte, architettura e struttura sono stati il Romanico e il Gotico (gli stili precedenti: Greco, Romano, Paleocristiano; e successivi: Rinascimento, Barocco, Rococò, Neoclassico, ecc., hanno offerto delle eccellenze che riguardavano singoli campi come la pittura, la scultura, l’architettura, la struttura, ecc., ovviamente senza voler generalizzare in quanto sicuramente esistono delle opere appartenenti a tali stili che abbracciano più campi). Essi caratterizzarono un periodo storico-culturale particolarmente fecondo che va dall’anno 1000 fino al XII secolo per l’architettura Romanica e dal XII fino al XIV secolo per l’architettura Gotica, anche se tali stili originari sono stati ripresi più volte in età successive fino ai tempi moderni con il neo-Romanico ed il neo-Gotico.
Mi ricordo ancora quando da giovane ingegnere strutturista appena laureato ero convinto che attraverso gli studi e concetti teorici acquisiti nei vari corsi frequentati e con i potenti mezzi informatici e software a disposizione sarei stato in grado di progettare, calcolare e verificare qualsiasi tipo di struttura. Grande fu la delusione quando, prima per semplice curiosità e poi per passione, incominciai a leggere qualche libro di storia dell’architettura, io ingegnere completamente ignorante di architettura in quanto non mi era stata insegnata quasi fosse una disciplina per la quale gli ingegneri oltre a non averne titolo non ne avevano nemmeno la necessità, quasi fosse una materia destinata ad una ristretta cerchia di “specialisti”. Mi ricordo ancora come mi sentii piccolo (nonostante la mole) nel pensare all’ardire avuto dal progettista sconosciuto del Pantheon (120 d.C.), che forse sarebbe meglio chiamare capomastro: un enorme cupola in calcestruzzo di circa 43 m di diametro che ancora oggi con le conoscenze scientifiche ed i mezzi a disposizione sarebbe arduo progettare. E che dire dei capomastri del Romanico e Gotico, alle loro grandi invenzioni strutturali: l’arco a sesto acuto, la volta a crociera, l’arco rampante, i pilastri a fascio, ecc., che gli permisero di costruire in particolare chiese e basiliche che si diffusero in tutta Europa. Esse rappresentano delle autentiche opere d’arte, che ancora oggi dopo più di 1000 anni risultano perfettamente idonee e funzionanti e che noi moderni ingegneri o architetti oltre a non essere in grado di calcolare, anzi secondo le attuali normative tali opere sarebbero dovute già crollare da un pezzo, non saremmo neanche in grado di progettare e costruire; anche se molti cosiddetti “esperti” o “specialisti” non ammetterebbero mai tale dura constatazione, essa è la pura realtà.
La volta a crociera
La volta a crociera introdotta come elemento idoneo a coprire le navate delle grandi cattedrali a partire dall’architettura Romanica (circa X secolo) fino a raggiungere la sua massima espressione stilistica nell’architettura Gotica (XII – XIV secolo) rappresenta una sintesi di arte, nella sua concezione strutturale; architettura, nella funzione e rapporto dei volumi che delimita; tecnologia, nella applicazione di tecniche e tecnologie costruttive con mattoni o materiali lapidei (tali tecniche e tecnologie ormai perse nella memoria e nell’insegnamento).La volta a crociera risolve brillantemente un problema funzionale (è solo questo lo scopo dell’architettura e dell’ingegneria strutturale; o dovrebbe esserlo!) che è quello di coprire grossi spazi scaricando i pesi in punti singolari (pilastri) senza impedire il libero movimento delle persone che potrebbe essere causato ad esempio dall’uso di setti o pareti in muratura, figura 20.
La volta a crociera è sicuramente più complessa di una semplice volta a botte, che può essere immaginata come una successione di archi appoggiati sui due muri laterali, sia dal punto di vista tecnologico che strutturale. Per capirne il funzionamento strutturale potremmo immaginare semplicemente e in maniera approssimata la volta a crociera (ottenuta dall’intersezione di due volte a botte ortogonali) come costituita da 6 archi: i 2 diagonali e i 4 frontali (o timpani), figura 20a. Questi 6 archi si comportano come dei normali archi analizzati già in precedenza e quindi scaricano i carichi sui pilastri con delle forze di compressione (puntoni) ed alla base trasmettono delle spinte, figura 20b.
Il problema della spinta è stato già ampiamente trattato insieme a tutti gli elementi strutturali inventati per il suo assorbimento: contrafforti, arco rampante, catena, ecc., e nulla è da aggiungere in merito.
Le volte a crociera sono autoportanti una volta risolto il problema della spinta, ma i capomastri romanici e gotici vollero enfatizzare il ruolo statico ed estetico degli archi diagonali e dei timpani mediante la realizzazione di nervature sottosporgenti (o costoloni) in genere realizzate con materiale diverso rispetto a quello della volta e di diverso colore, figura 21.
Il ruolo delle nervature è stato molto dibattuto tra chi ne contestava la funzione statica degradandole al ruolo di semplici orpelli e chi invece affidava ad esse la massima parte della capacità portante della volta a crociera. Secondo il mio parere entrambe le ipotesi possono essere vere dipende dalla tecnologia di esecuzione della volta a crociera: se la nervatura è un elemento inserito successivamente al completamento della volta in muratura allora è chiaro che essa non è altro che un elemento decorativo, ma se la nervatura è voluta ed inserita all’interno dell’organismo strutturale all’atto della sua costruzione essa assorbe la maggior parte dei carichi. Uno splendido esempio di nervature “portanti” è quello della volta a crociera del Duomo di Milano (cattedrale Gotica, XIII-XIV secolo) dove addirittura le “unghie” tra le nervature sono traforate con bellissimi rosoni, e di conseguenza in questo caso il carico è interamente assorbito dalle nervature.
I capomastri delle cattedrali gotiche erano innanzitutto degli artisti e poi dei capaci “ingegneri”, nel senso moderno del termine. Nulla ci è pervenuto sui principi e regole utilizzate per progettare e per dimensionare le strutture, quello che si conosce è che i capomastri appartenevano ad un “gilda” (corporazione di artigiani medioevale) molto potente ed estremamente chiusa, gelosa dei segreti acquisiti nella progettazione e realizzazione delle cattedrali al punto che uno di loro uccise il proprio figlio quando seppe che questi aveva riferito i segreti del mestiere al vescovo della cattedrale che stava costruendo.
La Capriata
Continuando questo nostro cammino immaginario nello scoprire le strutture elementari che l’Umanità ha saputo dotarsi per trasferire i carichi da una parte all’altra della struttura e infine al suolo, un posto di primo piano occupano le capriate anche dette travature reticolari, figura 22.La capriata si potrebbe definire come una struttura composta da vari elementi o aste collegate in un punto o nodo a formare una serie di triangoli (non sempre), che come diceva il grande costruttore di ponti e progettista del ponte di Brooklyn John Roebling: “il triangolo è la figura geometrica più indeformabile”.
Dal punto di vista storico, essendo le capriate inizialmente costruite in legno, un materiale come è noto che con il passar del tempo marcisce in special modo in ambienti umidi, non è noto quando siano state introdotte come elemento strutturale. È verosimile che i Romani, grandi costruttori e maestri della tecnica di lavorazione del legno (centine, navi, ecc.) utilizzassero le capriate in alternativa alle volte a botte, per coprire i grandi spazi degli edifici con destinazione pubblica o privata: basiliche, palestre, ecc. Purtroppo di tali elementi strutturali non è rimasta traccia né scritta (Marco Vitruvio Pollione, 80 a.C. – 15 a.C., nel suo famoso trattato sull’architettura “De architectura” non ne tratta) né reale. Quello che si sa è che le capriate vennero sicuramente utilizzate in epoca Paleocristiana per la copertura delle prime basiliche cristiane, anche se non se ne conosce la geometria per mancanza di testimonianze o reperti. In effetti quasi tutte le strutture in legno che sono giunte sino a noi dall’antichità non sono le originali, ma copie ottenute sostituendo di volta in volta i vari elementi deteriorati durante i lavori di manutenzione e restauro avvenuti nel corso dei secoli.
La capriata risulta dal punto di vista strutturale una delle strutture più efficienti in quanto le aste da cui è composta risultano o tese o compresse, questo avviene a rigore solo se i carichi sono concentrati nei nodi, come da prassi.
È stato osservato che le aste compresse sono soggette al fenomeno dell’instabilità che ne riduce la resistenza ed è funzione sia della sezione che della lunghezza dell’asta: un’asta più “corta” e più “grossa” è meno instabile. Per questo motivo si può notare in alcune travature reticolari che le aste compresse o puntoni sono corte e spesse, mentre le aste tese o tiranti sono lunghe e sottili (come ad esempio le catene).
Ma come si fa a capire quali sono le aste compresse e tese in una capriata soggetta a carichi? A questa domanda molti giovani ingegneri risponderebbero di attendere di poter inserire i dati (input) in un software di calcolo strutturale e ottenere la risposta dalla macchina. La strada invece da seguire in primis solo a livello qualitativo, ovvero per capire se un asta è tesa o compressa ma senza determinare il valore dello sforzo, potrebbe essere molto semplice ed evitare di non riconoscere imbarazzanti errori che a volte si verificano nell’analisi strutturale al computer che sono accettati supinamente come verità assoluta.
La semplice soluzione è quella di immaginare (esperimento mentale o Gendankenexperiment secondo Einstein) di rimuovere a turno ciascuna asta dalla capriata sotto carico, che così diventa instabile o un meccanismo (solo nel caso di aste strettamente necessarie e non sovrabbondanti), e verificare, sempre a livello di immaginazione, se i nodi di estremità dell’asta rimossa tendono ad avvicinarsi o ad allontanarsi. Nel caso in cui i nodi tendano ad avvicinarsi l’asta rimossa è sicuramente compressa, mentre se i nodi tendono ad allontanarsi l’asta è tesa.
Dal punto di vista grafico per indicare che l’asta è tesa si disegnano su di essa due frecce divergenti, mentre se l’asta è compressa due frecce convergenti.
Esercizio
La figura 23 mostra una capriata classica, come quelle che si incontrano spesso nelle chiese o nei sottotetti delle vecchie abitazioni, caricata sulle aste superiori (o corrente superiore) con delle forze concentrate che rappresentano i pesi della copertura. Analizziamo come si determinano qualitativamente le aste tese e compresse.
Soluzione
Il primo passo è quello di trasformare la struttura reale in un modello semplificato che la rappresenta, figura 23b.Si procede immaginando di rimuovere mentalmente a rotazione ciascun elemento della capriata, senza ripetere il ragionamento per elementi simmetrici o in continuità che presentano analogo comportamento, e disegnare o pensare come la struttura si deformerebbe.
- Asta AD (figura 23c). D tende a muoversi verso A e pertanto l’asta AD deve “spingere”, di conseguenza l’asta è compressa (puntone)
- Asta BD (figura 23d). D tende a muoversi verso B, l’asta è compressa (saettone)
- Asta FB (figura 23e). B tende ad allontanarsi da F e pertanto l’asta FB deve “tirare”, di conseguenza l’asta è tesa (monaco)
- Asta AB (figura 23f). B tende ad allontanarsi da A, l’asta è tesa (catena)
In figura 23g sono rappresentate le aste tese e compresse così individuate.
Commenti (0)
Aggiungi nuovo commento