- Renato Sparacio
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Chi ha inventato l'arco (in architettura) e quando? Non è il caso di intraprendere una laboriosa ricerca sulla priorità dell’invenzione, perché l’arco è sagoma che nasce spontanea, per istinto; come idea c’è sempre stato.
L'arco é una struttura curvilinea spingente vincolata agli estremi (fig.1). Può definirsi come solido generato da una figura piana (sezione) il cui baricentro si muove descrivendo una curva, mentre la sezione lo segue mantenendosi ortogonale alla traiettoria.
Generalmente la traiettoria (o curva d'asse) è piana, e in ogni punto il suo raggio di curvatura è prevalente rispetto alle dimensioni della sezione generatrice; la sezione è costante, o variabile, ma con continuità, lungo l'asse.
L'arco può assumere forme diverse, a ciascuna delle quali corrisponde un comportamento statico definito. L'architettura romana ne fece uso sistematico, con realizzazioni ardite e di valore estetico notevole, tipicamente sempre a tutto sesto, cioè con asse semi-circolare.
Assente nell'Oriente antico e nella Grecia classica, (che amò fedelmente i sistemi rettilinei), è invece ripreso nel Medioevo, e specialmente dall'architettura gotica, in forme varie, probabilmente per influsso della cultura araba (arco a sesto acuto, con due centri a livello di imposte, e freccia maggiore della luce).
Si è detto che la colonna non è l'unico modello di elemento strutturale capace di raccogliere, in tutte le sezioni, solo sforzi di compressione.
L'arco a conci, ottenuto disponendo i blocchi l'uno accanto all'altro tra due appoggi detti spalle o piedritti determina una situazione di sforzi interni simile a quella presente in un pilastro. Si consideri la metà sinistra del manufatto (fig.2); sia H l'azione ricevuta in chiave da parte del mezzo arco di destra. L'equilibrio del concio 1 richiede un'azione da sinistra costituita da una forza R1 che incontri H e P1 (peso del concio 1) in un punto, e comporti la chiusura del triangolo delle forze. I lati di questo triangolo sono equipollenti alle forze, nel senso che ne conservano direzione e verso e ne riproducono, in adeguata scala, la grandezza (o modulo).
Per il principio di azione e reazione il concio 2 riceverà da destra una forza uguale e contraria a R1 e l'equilibrio dello stesso concio determinerà R2. Proseguendo così, dalla chiave verso l'imposta, si può descrivere una curva delle successive risultanti, detta anche curva delle pressioni, che è l'insieme, in successione, delle Ri. Per il caso qui disegnato questo insieme di forze ricalca la linea d'asse dell'arco e in più, come si vede, nell'attraversare ciascun giunto, la forza mantiene una direzione ortogonale al giunto stesso. Queste proprietà della curva delle pressioni consentono di identificare il comportamento dell'arco con quello di un pilastro: anche nell'arco, come nel pilastro, ogni giunto è sollecitato da sola azione normale, che non richiede di mobilitare resistenze di attrito, e ogni sezione è impegnata da pressioni uniformi, data l'assenza di eccentricità. Questo elemento strutturale è quindi costruibile: basta l'accostare uno all'altro, secondo la configurazione del disegno, conci lisci di materiale neppure resistente a trazione. L'arco terrà, (purché le spalle reggano). Ma attenzione, questo equilibrio è condizionato da altre congiunture: la distribuzione dei pesi Pi, comprendenti anche quelli eventualmente portati dall'arco, deve essere proprio quella considerata, perché è facile verificare che una diversa entità o distribuzione dei pesi modificherebbe la curva delle pressioni, scostandola dall'asse geometrico dell'arco e quindi introducendo eccentricità e inclinazioni che indurrebbero slittamenti tra i conci, e richiederebbero la mobilitazione di forze di attrito. E ancora, la spinta H in chiave deve essere proprio questa della nostra costruzione grafica, in direzione e modulo, e applicata nel baricentro della sezione di chiave.
Forse l’ignoto muratore che ha composto questo muro in pietre poligonali della sacra città di Delfi (Fig.3), che operava nel VI secolo a.C., fu sorpreso di aver inconsciamente disegnato un arco, con tanto di perfetto concio di chiave. E già l’uomo preistorico aveva ammirato nel cielo archi colorati dal sole e dalla pioggia. E l’uomo delle caverne si faceva proteggere da volte ad arco scavate dal vento e dall’acqua.
La correlazione tra configurazione geometrica e risposta statica ha fatto dell’arco l’elemento più celebre della tecnica delle costruzioni: così, attraverso la storia dell’arco, è possibile seguire tutto lo sviluppo dell’arte, della scienza e della tecnica del costruire.
La qualità formale e sostanziale dell’arco, che ne costituisce la nota distintiva, è la capacità di piegare gli sforzi a seguire il proprio asse geometrico, convogliandoli dalla chiave fino alle imposte, in modo da ottenere un risultato altrettanto vantaggioso quanto quello che ha reso popolare la colonna; una compressione diffusa su tutte le sezioni sgombra il campo dalle trazioni, tanto sgradite ai materiali lapidei, penalizzati come sono dalla loro etero-resistenza.
Sia ben chiaro, però, che questo convogliare la risultante degli sforzi lungo la curva d’asse (luogo dei baricentri delle sezioni rette), deve rispettare le regole. Per riferire ai committenti i risultati di studi sulla cupola di San Pietro, il matematico Jacob Sterling si spiegò con un modello ideale di arco (Fig.4), fatto di conci sferici assolutamente lisci, in modo da ottenere, grazie alla duplice prescrizione (della forma e della natura della superficie senza attrito), che ciascun elemento si tocchi con il vicino solo in un punto e che la direzione della forza trasmessa sia rigorosamente quella ortogonale alla superficie di contatto, unica condizione per intercettarne il centro.
La curvatura della linea delle pressioni si paga, comunque, con un alto prezzo: l’azione, divaricante sulle imposte, della spinta pericolosamente incline a rovesciare i sostegni verso l’esterno.
Ma senza spinta non c’è arco, c’è la trave, con le sue sezioni sollecitate da flettenti e quindi insidiate dalle trazioni.
È proprio la presenza della spinta a far riconoscere l’arco, ed è la spinta che dovremo cercare, per scoprire non chi ha inventato l'arco in architettura ma quando e come per la prima volta l’uomo è ricorso all’arco. Ed è sintomatico che proprio nell’architettura tombale, nelle grotte, nei manufatti interrati, si ritrovino le prime coperture spingenti, (fine del VI-inizio del V sec. a.C.), che si possono considerare anelli di passaggio tra la trave e l’arco, e furono palesemente adottate in quelle situazioni, ove l’azione spingente non rischia di far ribaltare gli appoggi, perché questi sono contrastati dai terrapieni nei quali sono infissi.
Coperte da questi embrionali archi di due soli conci, sono le tombe di Carife, nel Sannio, le tombe ad edicola di Populonia, la grotta di Apollo, nel recinto del tempio di Delo, e finalmente, splendido scrigno di gloria e di storia, l’Heroon di Paestum, (Fig.5), cenotafio del mitico fondatore di Poseidonia.
Leon Battista Alberti, che non poteva aver visto nessuna di queste coperture, le aveva immaginate con sorprendente acume:
…credo che gli uomini abbiano appreso a costruir l’arco in questo modo: accortisi che due travi con le estremità superiori unite potevano essere fissate in basso, nel luogo ove le loro basi erano divaricate, in modo tale che, reciprocamente collegate ed equilibratesi con identico peso, si reggessero tra loro, la scoperta ebbe successo, e con questa tecnica si cominciarono ad impiegare negli edifici i tetti a displuvio….
In seguito, probabilmente, avendo intenzione di coprire con quelli un maggiore spazio, sistemarono una trave intermedia nel punto più alto alla sommità dei tronchi….e l’elemento aggiunto chiamarono concio, (Fig.6).
Anche questa invenzione ebbe fortuna, anzi i conci vennero moltiplicandosi, giungendo a costituire una sorta di arco…
La fig.7 consente uno sguardo ad un ponte in pietra costruito nel 18° secolo in una cittadina scozzese, Carrbridge, per il transito di pedoni e cavalli. E’ un modello esemplare, puro e schietto, di forza, equilibrio e bellezza incontaminata. E’ un semplice arco di pietre che si leggono una per una, e che dopo 3 secoli di vita ha perso solo i parapetti. Richiama alla mente un brano dalle Città Invisibili di Italo Calvino:
Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
-E qual è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
-Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra,-risponde Marco,-ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo-.Poi soggiunge:
-Perché mi parli delle pietre? E’solo dell’arco che m’ importa.
-Polo risponde:-Senza pietre non c’è arco.
Un’accesa disputa sulla datazione di un arco si è accesa, negli anni sessanta del secolo scorso, a seguito di una clamorosa scoperta archeologica (Fig.8).
Elea, (Velia per i Romani), fiorente città della Magna Grecia, a Sud di Poseidonia, sul litorale Tirreno, sede di una delle più famose scuole di pensiero dell’antichità, era divisa in due quartieri da una collina, sul crinale della quale correva una lunga cinta muraria. La strada che collegava i due quartieri tagliava la collina, e sottopassava il muro in corrispondenza di una stretta e profonda gola. Nel punto di intersezione, per dare continuità al percorso sovrastante lungo le mura, e compensare la breccia conseguente al passaggio stradale, fu necessario costruire un viadotto che scavalcasse la strada, e una porta ad arco che chiudesse quest’ultima. Ma quando?
La porta fu scoperta nel 1964, mentre si liberava la strada dai resti di una grossa frana. In base a molteplici elementi ne fu proposta una datazione piuttosto alta: IV o V sec. a.C. Scriveva nel 1965 Mario Napoli, il Sovrintendente che aveva diretto i lavori per riportare alla luce il monumento, (al quale aveva voluto dare il nome della consorte):
L’anno scorso, con i pochi elementi a nostra disposizione, dicemmo che il monumento andava datato al quarto secolo e che era da assegnarsi alla cultura greca. L’affermazione ha suscitato perplessità e preoccupazioni turbando radicati e ed accettati schemi di comodo: oggi possiamo essere ancora un po’ più precisi e dobbiamo ammettere una datazione al quarto secolo.
Il V Convegno di studi sulla Magna Grecia fu ravvivato dal dibattito tra il Sovrintendente e il prof. Giuseppe Lugli, autorevole autore di un fondamentale testo sulla tecnica edilizia romana. Suggerisco la lettura degli atti ai futuri tecnici della conservazione e del restauro. Tra gli altri motivi di interesse, quelli connessi al delinearsi di due assai diverse personalità: quella di un funzionario preparato e scrupoloso, fermo nella sue convinzioni, e quella di un Maestro, famoso cattedratico, che qui appare però piuttosto impulsivo, con qualche punto di malcelata supponenza.
Il professore contestò la datazione del Sovrintendente: un arco a tutto sesto come quello che copriva la porta non poteva essere che romano, non era credibile fosse sorto in Magna Grecia. La luce netta della porta misura m 2,68,e l’altezza fino all’intradosso del concio di chiave m 5.36 (cioè il doppio). Cosicché l’apertura del vano poteva contenere due cerchi sovrapposti di raggio m 1,34, tangenti ai piedritti e all’arco. Questa particolarità geometrica poteva rivelare, secondo Napoli, una suggestione pitagorica, che doveva essere palesemente forte ad Elea, come in tutta la Magna Grecia. La risposta definitiva e certa non è ancora pervenuta: ci sono ancora studi in corso a Fisciano per sapere l’età della Porta Rosa!...
Una cosa è certa: Il monumento è affascinante, solare, di strepitosa bellezza.
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