- Romolo Difrancesco
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Le argille hanno sempre destato in me molta curiosità scientifica, tanto da averne studiato per anni (nei laboratori mineralogici ed in quelli geotecnici) i caratteri apparentemente contrastanti: in estate sono dure come rocce tenere, si contraggono e possono produrre la comparsa di quadri fessurativi sulle sovrastrutture; in inverno tendono a perdere consistenza, rigonfiano al punto da riuscire a richiudere le lesioni fino a renderle quasi invisibili e in casi estremi possono assorbire tanta di quella acqua da diventare fango.
Sostanzialmente, tutto dipende dalla loro capacità di interagire elettrostaticamente con l’acqua, che tendono ad assorbire perdendo resistenza al taglio con andamento iperbolico; oppure, possono perderla con recupero della resistenza.
Resta il fatto che, qualunque sia la natura mineralogica e la struttura micro-macroscopica (figura 1) o qualunque sia la loro storia geologica, le argille obbediscono sempre al comportamento viscoso che li accomuna ai solidi continui e ai fluidi; per questo, prima di entrare nel merito dell’argomento, ritengo sia utile effettuare una breve escursione nel mondo dei materiali viscosi.
Figura 1. Microstruttura di argille caolinitiche (a sinistra) e smectitiche (fonte: Introduzione alla Meccanica delle Terre, Dario Flaccovio Editore - Palermo).
I materiali viscosi
Per poter comprendere il complesso comportamento delle argille occorre partire dalla legge di Newton, ovvero dalla legge più semplice che studia il comportamento dei fluidi viscosi per i quali stabilisce l’esistenza di una proporzionalità lineare tra uno sforzo applicato e la conseguente velocità di deformazione; tale proporzionalità è definita viscosità e misura la resistenza di un fluido allo scorrimento.
Tra i fluidi newtoniani troviamo la glicerina e gli sciroppi, ossia tutti quei liquidi viscosi che scorrono senza opporre resistenza così come avviene per l’acqua, agitata in un contenitore con un cucchiaio, la cui viscosità è indipendente dalla velocità di rotazione.
Un’importante deviazione dal comportamento descritto è quello dei fluidi non-newtoniani (o fluidi amorfi), nei quali la viscosità non è più costante ma varia col variare della deformazione, ossia col variare dello sforzo applicato. Un esempio divertente?
Nel video che segue sono illustrate le straordinarie proprietà della sospensione colloidale ottenuta con amido di mais (sospensione significa che le particelle non si sciolgono in acqua, ma rimangono sospese al suo interno), che può comportarsi come un solido o come un fluido in funzione dell’intensità dello sforzo. La sospensione la vedete liquida ma se gli date un pugno in superficie vi fate male, mentre se vi immergete (senza fretta) un cucchiaio potete tranquillamente mescolarla.
Ci siamo appena affacciati nello straordinario mondo della materia soffice, una branca della Fisica della materia condensata che negli ultimi anni ha compiuto importanti progressi tanto da essere entrata nella vita di tutti i giorni senza che ce ne accorgessimo (pensate alle scarpe da runner, dotate di materiali soffici capaci di irrigidirsi istantaneamente per ammortizzare gli impatti durante la corsa).
Altri esempi di sostanze non-newtoniane sono il sangue, la maionese, il miele, la vernice, l’asfalto e il dentifricio, il cui comportamento (comunque diverso da quello delle sospensioni con amido di mais) è controllato dalla forma, dimensioni e dalle proprietà elettrostatiche delle particelle costituenti… proprio come le argille anche se, strano a dirsi, stiamo parlando di sostanze che in pratica possono scorrere con un comportamento controllato dal tempo.
Figura 2. Comportamento dei fluidi newtoniani (N) e non-newtoniani Dilatanti e Pseudoplastici (fonte: Lesioni degli Edifici – Hoepli Editore, Milano)
Se classifichiamo i fluidi non-newtoniani sulla scorta della velocità di deformazione possiamo distinguerli in (figura 2):
- fluidi dilatanti (o fluidi ispessenti a taglio), nei quali la viscosità aumenta all’aumentare della velocità di deformazione (come avviene con la sospensione di amido di mais)
- fluidi pseudoplastici, nei quali la viscosità diminuisce all’aumentare della velocità di deformazione (come nel caso del ketchup).
Gli spritz-beton, costituiti da malta cementizia molto magra ed asciutta, possono comportarsi come fluidi dilatanti e richiedere una buona dose di potenza per essere espulsi dalla pompa; al contrario (e fortunatamente per noi), il calcestruzzo non lo è in virtù della curva granulometrica ben assortita … altrimenti, aumenterebbe la propria rigidezza e non sarebbe possibile pomparlo.
Se come elemento discriminante utilizziamo invece la variazione di viscosità nel tempo, abbiamo:
- i fluidi reopectici (o reopessici), nei quali la viscosità aumenta nel tempo se sottoposti a forze di taglio
- i fluidi tissotropici, nei quali la viscosità diminuisce all’aumentare nel tempo se sottoposti a forze di taglio.
Al primo caso appartengono le sospensioni di amido di mais e le sabbie mobili (figura 3); al secondo caso appartiene il ketchup.
Figura 3. Le sabbie mobili sono molte diffuse in Australia, ma non mancano esempi in Francia (Mont Saint Michell) e Danimarca, Inghilterra e Florida.
Le sabbie mobili (reopectiche) sono costituite da una miscela satura di acqua e sabbia confinata da terreni impermeabili (come le argille) che impediscono il drenaggio; ma, proprio come abbiamo visto con il video, una volta cadutivi dentro non bisogna agitarsi altrimenti aumentiamo l’intensità dello sforzo, lasciamo che l’acqua si allontani repentinamente dalle particelle di sabbia e che queste ultime si impacchettino imprigionandoci.
Figura 4. Il kecthup è un classico esempio di fluido tissotropico
Nel caso del ketchup (tissotropico), sappiamo dall’esperienza quotidiana che tende ad assumere una consistenza semisolida all’interno del contenitore (in pratica, è un gel sempre in bilico tra lo stato solido e quello liquido); ma se lo agitiamo, in pochi secondi tende a fluidificare e a fuoriuscire facilmente (figura 4), con un comportamento contrario a quello delle sospensioni con amido di mais e delle sabbie mobili. Se poi lo lasciamo riposare, lo vediamo riprendere la consistenza originaria e recuperare tissotropicamente la propria resistenza (non c’entra la temperatura del frigorifero, come siamo tentati di pensare, perché è una trasformazione isoterma).
Un altro esempio di materiale tissotropico è fornito dalla miscela di acqua e bentonite (è un’argilla!) usata per la lubrificazione dei fori di trivellazione, come nel caso dei pozzi petroliferi o delle perforazioni in terreni soffici dei pali in calcestruzzo armato gettato in opera; tali miscele restano liquide durante la perforazione, ma in caso di arresto della trivella si trasformano in un gel capace di imprigionare i detriti ed evitare che si accumulino sul fondo grippando la testa di rotazione.
Bene, ora che sappiamo districarci nel mondo della materia soffice (o perlomeno, ora che abbiamo scalfito la sua superficie), resta la domanda fatidica da porci: le argille sono tissotropiche o reopectiche? Oppure niente di tutto ciò?
Assemblaggio delle argille
Esistono ben 7 gruppi di argille (i gruppi costituiti da particelle esagonali del caolino, illite, smectite, clorite, vermiculite e due gruppi a struttura mista), ognuno con una propria struttura cristallina che ne influenza le peculiarità. Per produrli, la natura sfrutta un numero limitato di sostanze quali l’ossigeno, il silicio, l’alluminio, il ferro, il magnesio e il potassio che assembla secondo regole codificate; chiaramente il processo di assemblaggio è molto complesso, ma possiamo provare a semplificarlo all’estremo rimandando a Introduzione alla Meccanica delle Terre per tutti i dettagli, per conoscere gli ambienti di formazione e/o di deposizione e per scoprire come questi influenzano le proprietà fluidomeccaniche delle argille.
La struttura delle argille prende origine da quelle di due sostanze: la silice e la gibbsite (un ossido di alluminio che può essere sostituito da un ossido di magnesio, come la Brucite). La prima è costituita da silicio che si lega a 4 atomi di ossigeno per formare il quarzo. Sì, è vero che la formula del quarzo è SiO2, ma è anche vero che l’atomo di silicio ha la peculiarità di volersi legare con 4 atomi di ossigeno piuttosto che con 2 doppi legami, come la formula potrebbe suggerire. Pertanto, il biossido di silicio non è una davvero una molecola, ma tende a costruire una struttura tetraedrica covalente (molto simile a quella del diamante) ai cui vertici sono posizionati gli ossigeni mentre al centro il silicio. Chiamiamo T il tetraedro che ne deriva. La gibbsite (e la brucite) forma invece degli ottaedri, con al centro l’alluminio (o il magnesio) e ai vertici l’onnipresente ossigeno. Chiamiamo O l’ottaedro che ne deriva.
Figura 5. Le argille possono essere sostanzialmente di due tipi: TO o TOT (fonte: Introduzione alla Meccanica delle Terre, modificata)
Non resta che assemblare le argille, come illustrato in figura 5.
A sinistra è mostrata la struttura base della caolinite (di tipo TO), costituita dall’unione di un tetraedro di quarzo con un ottaedro di gibbsite che si ripetono spazialmente; a destra è mostrata la struttura base di una montmorillonite (è una smectite di tipo TOT), nella quale la brucite (o la gibbsite) è legata a 2 tetraedri (si vedano le corrispettive ministrutture di figura 1).
Nel caso della caolinite la stabilità chimica interna è garantita dai forti legami covalenti, mentre tra due TO si sviluppano i deboli legami di Van der Walls (per i dettagli si veda Introduzione alla Meccanica del Continuo); nella montmorillonite, oltre ai legami covalenti interni, si sviluppano legami ionici tra due TOT che consentono l’interazione con le molecole dell’acqua attraverso legami ponte idrogeno, potendo in tal modo assorbirle ed espandersi (anche più del doppio) o perderle per essiccazione e contrarsi.
Interazione delle argille con l’acqua
Raramente le argille sono pure (in quelle italiane prevalgono le montmorilloniti, mentre le caoliniti prevalgono nelle zone equatoriali) e altrettanto raramente le strutture delle argille sono elettricamente neutre. Normalmente manifestano cariche elettriche sbilanciate in superficie che tendono ad interagire elettrostaticamente con altre particelle argillose, con l’acqua e gli ioni in essa presenti (figura 6).
Figura 6. L’interazione elettrostatica tra le cariche elettriche presenti sulle particelle esagonali delle argille e i dipoli elettrici dell’acqua conduce allo sviluppo della coesione, che a sua volta può essere simulata con una molla secondo i metodi illustrati nell’Introduzione al metodo degli elementi finiti (fonte: Introduzione alla Meccanica delle Terre).
Il legame che ne deriva con l’acqua è un legame ponte-idrogeno di tipo Van der Waals, che risulta essere massimo in prossimità della superficie delle particelle di argilla per poi diminuire con legge iperbolica allontanandosi da esse.
Prima di proseguire voglio pormi una domanda: cosa accade nelle argille quando aumenta la quantità di acqua?
La risposta viene dalla figura 6, grazie alla quale scopriamo che aumentano le distanze interparticellari e diminuiscono le forze di attrazione elettrostatica responsabili della coesione; inoltre, le argille ricche di montmorillonite rigonfiano, dal momento che i pacchetti TOT possono raddoppiare di dimensioni, con tutte le conseguenze del caso.
Ma di questo ne ho parlato molto nel Manuale avanzato di Meccanica delle Terre, nel quale ho enfatizzato le modalità di interazione tra le argille (o le sabbie) e le strutture geotecniche, pervenendo a quadri di riferimento per stabilire quale criterio di snervamento adottare in sede di progettazione e come ottenerlo in laboratorio e/o in sito; in pratica: di quali parametri abbiamo bisogno e come ricavarli per migliorare e/o ottimizzare l’uso dei software di progettazione geotecnica.
Viscosità delle argille
Partiamo da un assunto: le argille sono tissotropiche; d’altra parte, il loro carattere tissotropico l’ho anticipato quando ho parlato del comportamento della miscela di acqua e bentonite usata nelle trivellazioni; ciò premesso, in un deposito argilloso possiamo distinguere tre diverse strutture in funzione delle dimensioni di riferimento, capaci di influenzarne le proprietà meccaniche ed idrauliche in misura diversa:
- la microstruttura, costituita da aggregazioni di particelle e pori di dimensioni delle decine di micron;
- la ministruttura, costituita da aggregazioni di microstrutture e pori associati, con dimensioni dell’ordine delle centinaie di micron (figura 1);
- la macrostruttura, che per le dimensioni di riferimento può contenere discontinuità tipo cavità, laminazioni e fessure.
Se limitiamo la nostra visione al livello di mini/macrostruttura osserviamo quanto anticipato con la figura 6, ossia che con l’aumentare della distanza tra le lamelle argillose per interposizione dell’acqua diminuisce l’attrazione elettrostatica tra le singole particelle e tra queste e le molecole di H2O. Questo significa che quando saturiamo i provini di argilla in laboratorio (prima di portarli a rottura) non facciamo altro che produrre la caduta della resistenza per coesione, che assume un valore nullo nelle argille normalconsolidate sature; quindi stante attenti, perché se il laboratorio vi fornisce valori non nulli della coesione vuol dire (nella migliore della ipotesi) che non ha saturato correttamente i provini (ma per i dettagli teorico-sperimentali vi invito nuovamente alla lettura del Manuale avanzato di Meccanica delle Terre, dove troverete tutti i trucchi per scoprire le magagne).
Bene, fermo restando che le leggi che governano il comportamento dei terreni saturi sono particolari mentre quelle afferenti i terreni parzialmente saturi hanno valenza generale, voglio pormi un’altra domanda: cosa succede se aumentiamo l’afflusso di acqua nelle argille?
Figura 7. L’eccesso di acqua nelle argille porta alla loro trasformazione in un fluido viscoso.
Come risposta pensiamo alle colate, perché per ulteriori aumenti di acqua nel sistema osserviamo il passaggio da uno stato di solido hookiano a quello di fluido viscoso, la cui configurazione strutturale sarà costituita da particelle argillose disperse nell’acqua (figura 7).
Abbiamo però visto che la viscosità misura la resistenza allo scorrimento di un fluido, ragion per cui osservando le argille da questo nuovo punto di vista scopriamo che possono essere definite non tanto come solidi, quanto come fluidi il cui carattere viscoso è mascherato dai forti legami chimici esistenti tra le singole particelle; inoltre, scopriamo anche che all’aumentare della distanza tra le particelle si verifica una variazione della viscosità, tanto da poterle considerare come fluidi non-newtoniani.
Il carattere tissotropico delle argille dipenderà allora proprio dalle caratteristiche tipiche di tali geomateriali, che mostrano una variazione correlabile tra le proprietà reologiche e la viscosità (quest’ultima funzione dalle modifiche strutturali), mentre la condizione di reversibilità del processo è ovviamente dipendente dalla possibilità di migrazione dei fluidi interstiziali e dal recupero dei legami elettrostatici interparticellari.
È importante a questo punto notare che l’essiccamento di un’argilla, successivo all’imbibizione, produce il recupero tissotropico della resistenza al taglio attraverso il passaggio per una fase di destrutturazione (tanto più marcata quanto maggiore è l’afflusso di acqua) che può procedere fino al raggiungimento della condizione di fluido non-newtoniano vero e proprio: il fango.
In questo modo un deposito di argilla può localmente perdere non solo la propria consistenza, ma anche la storia geologica e tensionale che non potrà più essere recuperata, tanto che la resistenza finale, successiva al processo di flocculazione e riaggregazione delle particelle, sarà inferiore a quella iniziale.
Geotecnica del III millennio
Non ho scritto questo articolo con lo scopo (unico) di pubblicizzare i miei libri… altrimenti non avrei scritto i tanti articoli per il mio sito e per il magazine di Dario Flaccovio che hanno aiutato (e aiutano) molti tecnici nel loro lavoro (ricevo decine di email al giorno e parte di queste sono di ringraziamento per il materiale messo a disposizione); vorrei però spendere due parole per la collana Geotecnica del III millennio, perché con essa ho voluto creare uno stacco netto con la produzione tecnica precedente.
Contiene tutte le mie più recenti ricerche pubblicatemi da riviste nazionali e internazionali di matematica, geologia, geomateriali e geotecnica, con le quali ho rinnovato la teoria della consolidazione, la meccanica dei moti ondulati, la teoria delle leggi di degradazione e altro ancora; inoltre è basata su molti miei modelli matematici originali (ossia non pubblicati prima) relativi all’interazione terreno-struttura, all’idraulica e alla meccanica dei terreni parzialmente saturi (pensiamo a come potremmo tenere in piedi un fronte di scavo di molti metri senza opere di sostegno provvisionali o definitive). Infine nei vari volumi insegno come risolvere (aggirandoli) gli errori tipici e/o le limitazioni dei software di progettazione strutturale e geotecnica.
A chi mi scrive chiedendomi spiegazioni prima di procedere con l’acquisto dei volumi rispondo sempre allo stesso modo: “In essi insegno il metodo e non la soluzione. La collana Geotecnica del III millennio non è un formulario”.
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